03/05/10

Green Zone

Ultimamente, sempre più spesso, mi ritrovo a domandarmi se ciò che vedo al cinema, quello che percepisco come immagini in movimento su uno schermo, corrisponda a quelle che sono le visioni dei critici affermati, che in un certo senso mi stimolano ulteriormente alla visione di film che di suo, vuoi per la trama, vuoi per certi aspetti percettivi o di sensazioni preconcette, mi portano a decidere di fruirlo aspettandomi uno spettacolo soddisfacente e appagante.
Green Zone di suo si presenta come un intrigante punto di vista su una realtà ben nota ormai a tutti, ma inevitabilmente sopita e dimenticata, ovvero quella dell'assenza delle fantomatiche armi di distruzione di massa, il tutto mescolato al cinema d'azione di cui Greengrass è un rappresentante meno fracassone e più intellettuale di altri suoi colleghi, come dimostra la saga dell'agente segreto Bourne, risollevata a partire dal secondo episodio, grazie al suo intervento in cabina di regia.
Il film ha come punto di partenza un libro inchiesta, che nella versione italiana ha ripreso il titolo e l'immagine della locandina per creare una continuità di riconoscimento tra i due medium, in modo da trainare il testo di partenza, quale non semplice romanzo, ma che con la stessa intensità narrativa riesce ad approfondire aspetti, che il film non considera per ovvie esigenze di adattamento.
Per quanto mi riguarda, Greengrass, a parte Bloody Sunday non mi ha mai esaltato con il suo stile frenetico di montaggio, in cui i corpi inseguentisi in velocità, per quanto futuristi possano sembrare mi restituiscono un'idea di caos e di confusione. Anche in questo film il regista opera un rimescolio di voci e rumori nella sequenza iniziale, che ha un suo realismo, ma che alla lunga disturba e infastidisce.
Forse non sono un fruitore sufficientemente attento e anche un po' passatista nel concepire il montaggio cinematografico, per quanto non disdegni affatto l'azione al cinema, ma lo stile Greengrass non riesce a coinvolgermi come vorrebbe e dovrebbe, tant'è che l'inseguimento finale, che ha una sua frenesia che inevitabilmente mi ha ricordato la sequenza del secondo episodio della saga di Bourne, anche perché regista e attore protagonista sono gli stessi, alla lunga ha un che di beffardo e ridicolo nella sua conclusione, anche se a suo modo serve a suggellare quella che è l'idea di fondo del regista, ovvero la democrazia non la si può imporre ed esportare come se fosse la Coca Cola, ma è una scelta che deve essere lasciata al popolo.
Infatti, il discorso di fondo del film, che preme sull'azione, è quella di uno scontro interno tra rappresentanti stessi della CIA e del Governo degli Stati Uniti, alla ricerca di un generale dell'esercito iraqueno, che per una fazione può essere una utile fonte di informazioni e di aiuto per la rinascita del paese, per l'altra solo una scomoda pedina da eliminare.
Da qui la caccia aperta per il militare interpretato da Matt Damon, che appare più umano del super agente interpretato in precedenza, ma l'iconografia cucitagli addosso permane inevitabilmente, a causa dell'ammiccamento operato dai produttori che hanno pensato di sfruttare questi elementi ricognitivi al fine di rendere più appetibile un film che dispiega verità più o meno scomode, seppur celate attraverso un cinema d'azione, che potrà sicuramente soddisfare la critica e i palati in cerca di cinema frenetico, ma che al momento mi ha lasciato abbastanza freddo e snobisticamente distaccato.

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